E lì dentro riconsidera e assapora.
Lì dentro riannoda sensazione e pensiero, prova a ricominciare qualcosa a partire da quanto sembrerebbe concluso. Tenta di inaugurare un nuovo, magari avventato, corso. Azzarda un discorso, appunto…
Quando andiamo a teatro, se restiamo colpiti da quanto si è visto, difficilmente sapremo raccontare ciò a cui abbiamo assistito.
È faticoso rievocare lo spettacolo, persino a noi stessi. Rimetterlo in scena, sulle tavole della nostra memoria, è impresa azzardata, votata all’impossibile. Perché quello che ci ha davvero sedotti non è la trama, l’intrigo, la storia. Queste cose sì, si possono narrare ancora. Quello che ci rapisce è l’inaudito canto delle sirene. Il teatro agisce sul sistema nervoso e attraverso cavi elettrici di diametro invisibile si irradia in tutto il corpo vivente degli spettatori, si annida su scala molecolare, eludendo così la grammatica dei nomi. Il teatro si esaurisce lì dove s’inscena. Al di fuori del tempo e del luogo in cui accadde l’evento teatrale permangono tracce opache, parlano lingue balbettanti, restano sogni confusi. La foto non è, e nemmeno può essere, rappresentazione oppure copia, non è testimonianza oppure riflesso, non è registrazione frammentata di un doppio. Si riferisce a qualcosa che è avvenuto una volta sola, ma è costituita da tutt’altra materia. Eppure c’è qualcosa nelle foto che straripa, che eccede l’immobilità della figura.
La foto non può catturare l’istante. Quel frangente è andato a riempire il nulla, o nell’archivio contorto da cui ogni tanto la memoria attinge qualche assaggio di tempo, distorto e ormai costretto all’attimo che viene. La foto ricava dal mondo che scorre un’immagine e ne fa tesoro.
Cose ignote e annodate ci consegna insondate il flusso. Solo l’attenuazione del movimento, la dissipazione del prima e del dopo, rendono chiare e percepibili le forme indistinte del tempo che dura.
O spazio o tempo. Nel teatro vince la logica del mutamento. Dentro una foto può l’istante schiudersi al presente come sola figura, come paesaggio assoluto.
La pittura ha tutto il tempo di scegliere il gesto cruciale, l’attimo che davvero è chiave di ogni futura svolta. La singola foto dello spettacolo teatrale mostra che non c’è nessun istante decisivo, che tutti i frangenti sono animati da un alone di grazia crudele. In ogni parte coagula e si specchia il tutto. Ma soprattutto prova che il teatro non ha posa. La foto ruba l’anima solo se ci costringe a posare, a riposare.
Gli attori di questo spettacolo non vengono mai sorpresi in atteggiamenti vanitosi, in gesti enfatici: sono esclusi dal loro repertorio i vezzi. Gli attori sono totalmente in ciò che dev’essere detto. Non c’è nient’altro. Se non l’effetto che possono avere i segni distillati all’osso.
Gesti acuminati in forma di bisturi, di strumenti di precisione microchirurgica, gesti e parole in grado di smuovere il velo indifferente di noi spettatori dalla vista obesa. Dunque persino il testo non è in posa. La parola ritrova la sua natura alata, la sua compromissione col respiro.
Andare a teatro diventa un’esperienza inenarrabile. Le riprese video descrivono più o meno quello che è successo, ma non sono in grado di restituire l’elemento determinante del fatto teatrale: la presenza concreta degli attori. Le foto hanno un vantaggio rispetto ai video. Non tentano di resuscitare l’evento ormai svanito, non sono riprese o repliche. Sono altra cosa. Sono emblemi, icone, geroglifici che si riferiscono a qualcosa che forse è successo o che forse dovrà ancora avvenire.
Le foto vivono nell’interstizio temporale divaricato tra allusione ed elusione.
Le foto parlano di una scomparsa.
Le foto convocano qualcosa che manca e che adesso soltanto uno spettro di luce può inchiodare al ricordo. Pur precisa e squadrata, la foto rivela parvenze.
Torna dell’evento la natura d’improvvisa epifania, torna l’ingombro di un agone.
Ritratti dal carcere era il titolo originario di questa raccolta. Un immediato gioco di parole avrebbe portato a fantasticare sulle opportunità “evasive” date dal teatro e dalla fuga di foto fin nel mondo dei cittadini liberi: ritratti, tratti fuori, proiettati all’esterno… Credo, invece, che nello spettacolo La soglia non si cerchi di dar corpo a nessun inganno consolatorio. Si prende sul serio la condizione umana, come soglia appunto, come limite tra libertà e detenzione.
Non si tenta di superare, di aggirare la prigionia. Nel gesto teatrale, in un’esaltante aderenza e compromissione degli opposti, la congiuntura delle due istanze di schiavitù e arbitrio viene radicalizzata.
E diventa principio di rivolta, di metafisica sommossa. Questi attori, che vivono giornalmente e sulla propria carne il tormento della detenzione, sperimentano, questionano, indagano l’essenza sfuggente della libertà. La libertà non è uno stato naturale, la libertà è un evento insolito, che sta a noi lasciare affiorare nonostante le tortuosità del cammino accidentato.
Queste foto non sembrano avere qualità evocative. Non suggeriscono la prosecuzione di quanto si vede, non spingono a ricostruire mentalmente il flusso da cui sono state enucleate e consegnate all’evidenza. Queste foto si impongono al nostro sguardo come immagini in sé conchiuse, come moniti ultimi e definitivi, come epigrammi scolpiti nell’acciaio. Queste immagini non chiedono d’essere contemplate.
Rappresentano un guanto di sfida.
Ho visto le foto e ho avuto voglia di andare a vedere il lavoro che c’è dietro questo puntuale tumulto espressivo. Volevo indagare sulla procedura che permette al gesto di stagliarsi preciso e irrevocabile, emerso dal mare astratto dei possibili. Ogni esercizio è già teatro, ogni indagine o scavo sul testo è già un incendio che divora i gesti a vanvera, gli atteggiamenti fatui, le azioni di sfoggio. Ho assistito a una prova degli attori. Dopo abbiamo conversato insieme. Mi è sembrato di avvertire il suono di un nuovo linguaggio. La lingua di un teatro ritrovato.
Quel teatro che ci si sforza d’inseguire nelle accensioni, negli afflati teorici dei convegni, quello che resta sempre di là da venire. Non mi riferisco a qualcosa di formato, di compiuto. Parlo di un certo modo di stare in scena, un’attitudine, un rigore: questa disposizione radicale avveniva lì persino in prova. La presenza totale a ciò che accade, la vertigine avvertita quando il gioco è vissuto sul serio e impone un rischio. Ancora, nel nostro colloquio, e dunque fuori scena, nelle parole degli attori distillava un dire levigato, senza l’ingombro di svolazzi, d’orpelli, d’effimere infiorettature. A volte frammenti di frasi, discorsi a mozzichi, accenti sulle sillabe cruciali, a volte epigrammi compiuti, pareri scolpiti, per cogliere davvero cosa importa del teatro, cosa lo fa sentire necessario.
“Staccare la spina, essere più concentrati all’essenziale, non nascondersi più, non scappare, esserci, emersi, essere visti, assurdo a dirsi qui dentro, ma sentirsi liberi, aprire il pugno a carezza, sentire l’aria a capriole, trovarsi portati al dialogo, esporsi alle persone, non abbassare lo sguardo, mettersi in gioco, vedere la gente che guarda e che aspetta che dici qualcosa, quasi malignamente non aprire la bocca, serrare le labbra e restare sospesi, sentirsi come un Dio, sciogliere l’oppressione che interrompe il grido, vibrazioni, trovare il modo dell’adrenalina pura, il testo coglie libertà interiori, la libertà che nasce quando può muoversi una sola mano, la libertà che a tutto il corpo si propaga e la scoperta del respiro; c’è l’aria fuori ma più sottile e piena d’anima ci soffia l’aria dentro, dentro di noi conteniamo l’esterno, mentre si fa teatro non c’è fuori e dentro…”.
Così come le fotografie di paesaggi devono essere abitabili, e non visitabili, allo stesso modo si potrebbe dire che queste immagini non determinano semplicemente il desiderio di vedere lo spettacolo.
Il contagio fa sì che venga voglia di recitare, di rischiare, di esporsi in prima persona alla vertigine del teatro.
La foto è una soglia. Ma anche una trappola, un’ambigua tagliola.
Come lettori di questi “scatti”, ci sentiamo noi in una condizione di cattività. Sentiamo che in noi il teatro rischia di essere ormai solo un museo, un luogo posticcio dell’immaginazione.
Noi “di fuori” abbiamo recluso il teatro nello spazio ordinario di una cerimonia vuota.
I detenuti, a partire dalla loro condizione di segregazione, ritrovano l’essenza dell’atto teatrale, che è la gioia del corpo che eccede le forme. Il corpo che smargina il tratto ordinario dei gesti, delle abitudini, dei comportamenti viziati dall’ovvio.
A volte la censura incoraggia l’estro, l’istinto aggressivo dell’arte. L’arte deve graffiare, lacerare, svelare attraverso distorsioni i guasti di ciò che si dà come statuto ovvio del reale. L’arte possiede infatti un’implicita virtù rivoluzionaria che viene esaltata dall’incombenza dei divieti.
Qualcosa di simile avviene col teatro in carcere. La prigionia mortifica la dimensione plastica dei corpi, anestetizza la tentazione e il desiderio della carne di sovvertire la forza di gravità votandosi alla danza, alle sue sospensioni, alle sue vertigini, ai suoi gorghi. Il teatro nasce e risorge dalla danza.
Ogni movimento teatrale, ogni gesto in scena, quando l’involucro è un carcere, diventa improvviso fiorire.
Il gesto è libertà nel suo stadio d’aurora.
La fotografia di questi attimi è dunque, alla lettera, “scatto”, impulso al movimento. Per cui quell’embrione dinamico può esplodere all’esterno, come in un’eco iconica, in un riverbero che incanta gli occhi di chi non c’era, di chi può misurare adesso una distanza.
Lontananza dal luogo in cui avveniva l’attimo teatrale, scoperta d’essere remoti dalla realtà più viva del teatro, che è, nella sua essenza più radicale, erosione dell’abitudine, rivolta contro le maglie del linguaggio ordinario al cui interno è stritolata la nostra parola più urgente, quella che fa fatica a farsi dire.